La libreria di passaggio

Neve, cane, piede

Di solito c’è un motivo ben preciso che ci spinge a mettere un libro sulla nostra libreria di passaggio: a volte asseconda il desiderio di capire meglio un Paese straniero o un fenomeno sociale, altre volte è il piacere della lettura fine a se stessa, magari attraverso un genere che abbiamo nel cuore e ci è di conforto. 

Questa volta invece non sapevamo praticamente niente di questo libro se non che fosse un romanzo ritenuto da alcuni critici imprescindibile nel panorama italiano del Novecento e che, come recitavano le poche recensioni che avevamo trovato, contenesse un cane, la neve e un piede… rigorosamente in quest’ordine. Facciamo ammenda: abbiamo in seguito scoperto che Neve, cane, piede di Claudio Morandini ha vinto il premio “Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante” nel 2016 ed ha racimolato pareri entusiasti un po’ ovunque, venendo tradotto anche in diverse lingue straniere. Pubblicato originariamente da Exòrma Edizioni, nel 2021 è uscito con una nuova veste grafica per Bompiani in una versione rivista e leggermente ampliata. È proprio questa la versione del romanzo che abbiamo acquistato noi e che abbiamo letto, curiosissime di scoprire come fosse possibile costruire un intero romanzo su tre elementi tanto insoliti.

In effetti Neve, cane, piede è un libro sorprendente, perché è proprio un libro che non ti aspetti nonostante il titolo sia fedele al contenuto. Morandini, nato e cresciuto ad Aosta, porta il lettore con sé sulle sue Alpi e lì inscena la storia di Adelmo Farandola, uomo anziano e prototipo del solitario e burbero musone di montagna che già tante volte è stato raccontato dalla letteratura europea a partire dal nonno di Heidi. Già visto e già letto, dunque, e invece no: Morandini sfrutta questo personaggio per mostrarci qualcosa di più, qualcosa di straniante ma anche più intimo e intenso.

La lettura scorre come le stagioni, con naturalezza e grazia da una parte e con una crudezza rigorosa dall’altra. Il libro è corto, solo 150 pagine, e si legge con tranquillità in un paio di lenti pomeriggi. I capitoli sono brevi, essenziali, ma ogni volta scoprono un tassello di un puzzle che inizia chiarissimo e finisce per essere molto più ingarbugliato di quanto si possa supporre. Vista la lunghezza, è difficile parlare di questo libro senza svelarne la trama, che è davvero una chicca ben congeniata, ma ci sono comunque degli elementi che val la pena approfondire.

Tanto per iniziare la struttura è semplice ma di gran effetto: sono descritti un autunno, un inverno e una primavera visti dagli occhi di un anziano solo che è diventato un eremita, ossessivamente legato alla sua casetta e al suo valloncello aspro e indifferentemente crudele come solo la natura sa essere. I protagonisti sono pochi ma scolpiti nel granito e restano, nonostante tutto, nel cuore.

Già dalle prime battute ci rendiamo conto che Adelmo Farandola è un uomo senza età, ma sicuramente in là con gli anni, e che non può essere un narratore di cui fidarsi perché le dimenticanze e le stranezze crescono di pagina in pagina. Diventa persino molesto, eppure non si riesce a portare rancore a quest’uomo così immerso nella propria emarginazione che gli si è appiccicata addosso, come una sensazione sgradevole che lo accompagna da così tanto tempo che ha smesso di sentirla, o che per meglio dire ha trasformato in un caldo guscio protettivo. 

Non è cattivo, è solo meschino e incancrenito nella propria quotidianità. Le sue bassezze sono figlie della povertà profonda della gente di montagna e di un’infanzia deprivata e senza stimoli; l’abbandono di ogni connessione sociale ha fatto il resto. Non è qualcuno a cui ci si affeziona, ma si prova pena per lui come la padrona del negozio dove va a fare spese poche volte l’anno, che ne sopporta l’odore disgustoso e gli fa trovare qualcosa da mangiare nonostante le sue magre finanze; oppure il guardiacaccia, temuto e odiato dal vecchio, eppure una presenza costante, che si prende la briga di dare un’occhiata a questo bisbetico rintanato in montagna, in una cengia dimenticata da Dio e dagli uomini.

A lui si accompagna un cane, vecchio e cencioso come lui, che ne diventa la coscienza e la voce di controcanto. Insieme imbastiscono dialoghi fatti di piccoli e grandi dispetti, condivisione del poco che resta e lunghe camminate per pattugliare il territorio, sempre soli e sempre affamati. Scivoliamo quasi inconsapevolmente nella follia di Adelmo, al punto da dare per scontato che il cane gli risponda davvero e che le conversazioni che intrecciano siano il naturale svolgimento di un sodalizio tra solitudini che si uniscono per sopravvivere. Il cane risulta spesso più razionale e sensato del vecchio… e questo ce lo rende simpatico e ci avvicina a lui.

 La montagna, assieme al protagonista, al cane e al famoso piede, è uno dei personaggi fondamentali di questo libro; è una creatura viva, indomita. Ci racconta una montagna vera, quella che sentono e vivono gli abitanti, non i villeggianti. Quella che premia pochissimo e punisce con rabbia, che ti seppellisce con la neve e che, nelle peggiori notti dell’inverno più crudo, urla la sua furia e ti sotterra con indifferenza. 

Per chi ha vissuto almeno un po’ in montagna l’atmosfera di cupa rassegnazione dei lunghi mesi invernali può ritrovare qui una descrizione che stupisce e stimola tutti i sensi. Questo è davvero un libro sensoriale, ogni descrizione è volta a far vivere l’esperienza da ogni punto di vista. Memorabili sono le descrizioni degli odori spesso sgradevoli che si accompagnano al protagonista e lo scricchiolio sinistro della neve che ha seppellito la fragile casetta in cui Adelmo e il cane trascorrono l’inverno, uccidendoli quasi per inedia dopo averli travolti con una valanga. Non mancano dettagli truculenti legati al senso del gusto e dell’odorato, un coacervo di sollecitazioni sensoriali, dobbiamo ammetterlo, non sempre piacevoli per il lettore.

Ultimo ma non meno importante protagonista è il piede. Riemerso dopo una slavina provocata dal disgelo diventa punto focale della capitolazione psichica del protagonista, come se la visione di quel piede fosse il sassolino capace di far crollare la valanga della sua salute mentale già compromessa. Niente da quel momento sarà più come prima: il tracollo sarà totale e investirà tutti i protagonisti di questa storia.

Non vorremmo che il lettore sottovalutasse questo romanzo. Nonostante la brevità e lo stile essenziale che lo fa leggere velocemente, non è un libro facile. È una storia che richiede attenzione. Anche se all’inizio è facile valutarla in modo superficiale si finisce per restarne stregati e orripilati insieme. All’autore bastano poche pennellate per tratteggiare personaggi e ambientazioni, tuttavia con quelle riesce a spalancarci davanti un mondo che è, insieme, assolutamente domestico – a chi non è mai capitato di andare in montagna a passeggiare o a prender funghi e di trovarsi davanti uno di quei vecchi scorbutici che sembrano avere un linguaggio fatto solo di grugniti e sguardi torvi? – ma anche alieno e terrificante. Morandini riesce a mostrarci cosa la solitudine e la deprivazione possano operare sulla mente umana, come i traumi si incistiscano in un eterno presente nei nostri ricordi e quanto la memoria possa farsi labile e trascinarci in una visione del mondo deviata, impantanata tra delirio e realtà. Insomma, Neve, cane, piede è un romanzo che parla di montagna, di vecchiaia e dei labirinti della mente, il tutto con soli tre ingredienti e poco altro. Come si può resistere alla tentazione e non leggerlo?

Elena e Manuela

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